Il monte Nebo è il luogo dal quale Mosè contemplò la Terra Promessa, senza poter entrarvi. Il Nebo sorge a otto km a nord-ovest di Madaba, alle propaggini occidentali di un altopiano con varie cime, delimitato a nord dal Wadi Uyun Musa, “valle delle sorgenti di Mosè”, e a sud dal Wad Afrit. Il punto più elevato a sinistra della strada – dove si innalzano alcuni dolmen – è il Nebo vero e proprio, in arabo Jebel an-Neba (802 metri di altezza). Il monte Pisga di cui parla la Bibbia (Ras Siyagha) è invece più esteso verso ovest, ma più basso (710 metri). Una pendice più meridionale, il Khirbat al-Mukhayyat (790 metri), ospitava la città di Nebo.
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Gli scavi sul Ras Siyagha hanno riportato alla luce, oltre a sei tombe, un soprastante piccolo edificio a forma di croce ma forse di origine precristiana: una sorta di cappella sepolcrale che internamente presenta tre lati arrotondati e un bel pavimento musivo. Nell’abside centrale nel IV secolo d.C. fu inserito un synthronon (seggio sacerdotale) e fu aggiunto un vestibolo. In quest’ultimo si trovava una croce intrecciata a mosaico. In base a un’iscrizione, si tratta di una «fondazione imperiale, al tempo dei presbiteri Alessio e Teofilo». Un’altra iscrizione parla di un restauro eseguito «all’epoca del molto onorevole e devoto presbitero e abate Alessio».
In una cappella adiacente a sinistra fu collocato in seguito, a un metro di profondità, un battistero bizantino. Un bellissimo mosaico con scene pastorali e di caccia è databile all’anno 531 grazie a una lunga iscrizione che vi corre sopra e sotto. Nel testo sono raccomandati al Signore non solo le autorità come il «vescovo Elia» ma anche i mosaicisti «Soelos [= Saul] e Kaiomos ed Elia e le loro famiglie».
Nel VI secolo la cappella originaria fu trasformata nel presbiterio di una basilica, di cui sono ben conservati i semplici mosaici delle navate laterali, mentre rimane poco della decorazione musiva della navata centrale. Originali i capitelli, che ai quattro angoli si sviluppano in forme che ricordano rametti di mimosa. Il vecchio fonte battesimale che esisteva sul lato sinistro fu eliminato, portando il pavimento a livello della basilica e abbellendolo con figure geometriche a mosaico.
Nel 597 fu realizzato un nuovo battistero a sud (destra) della basilica, ovvero al di sopra dell’antica cappella sepolcrale. Agli inizi del VII secolo fu aggiunta a ovest la cappella della Theotokos, la Madre di Dio. La chiesa dunque, considerando anche le aggiunte laterali, misurava 30 x 37 metri. Abbastanza insolito, nella cappella mariana, il mosaico (rovinato dagli iconoclasti) di fronte all’abside, voluto dal vescovo Leonzio (603-608): si richiama evidentemente al brano di 2 Maccabei citato sopra, mostrando – tra due gazzelle, due mazzolini di fiori e due tori – un’immagine stilizzata del tempio di Gerusalemme, o magari la «grotta simile a una casa» («il vano a forma di caverna» nel testo CEI) trovata da Geremia sul Nebo. Si riconoscono il fuoco che sale dall’altare dei sacrifici e la tavola per l’offerta dei pani all’interno di un tabernacolo. L’iscrizione in greco riporta il Salmo 51, 21: «Allora immoleranno tori (“vittime” nel testo CEI) sopra il tuo altare». La citazione di questo versetto ha senso se si ricorda che sull’altare della cappella veniva celebrato il sacrificio della Nuova Alleanza, che portava a compimento quelli antichi. Su tre lati – escluso quello frontale a est della cappella originaria – la chiesa era circondata dagli edifici di un monastero di notevoli proporzioni (78 x 82 metri).
La chiesa sarà da identificare con quel «memoriale di Mosè» che Egeria volle andare a visitare sul Nebo con un’estenuante deviazione da Gerusalemme. La pellegrina riporta l’esistenza di «una chiesa non troppo grande in cima al monte Nabau» eretta in onore del sepolcro di Mosè. Ma ha un bel da fare a spiegarci l’origine dell’edificio: resta il fatto che, secondo la Bibbia, «nessuno fino a oggi ha saputo dove sia» il sepolcro di Mosè (Dt 34,6).
È però comprensibile che questo deterrente non bastasse. Un testo apocrifo giudaico, L’ascensione di Mosè, si sforza di colmare la lacuna. Il tema tornerà nel Nuovo Testamento nella Lettera di Giuda (non l’Iscariota), che descrive addirittura la battaglia sostenuta dall’arcangelo Michele per ottenere le spoglie del grande leader degli israeliti: Quando l’arcangelo Michele, in contrasto con il diavolo, discuteva per avere il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: «Ti condanni il Signore!» (Gd 9).
Secondo il biografo di Pietro Iberico, il quale venne da queste parti attorno all’anno 430, il luogo della sepoltura sul monte Nebo fu trovato grazie a un pastore che, in seguito a una visione, era arrivato in una grotta profumata e splendente: lì Mosè giaceva come un rispettabile vegliardo, con il volto luminoso, su un letto che scintillava di grazia e di gloria.
Quando poi gli abitanti del luogo avevano costruito la chiesa, il profeta e datore della Legge aveva dimostrato tutta «la sua bontà e potenza tramite segni, miracoli e guarigioni che da allora accadono senza interruzione». Cosicché in epoca cristiana il luogo divenne meta privilegiata di pellegrinaggi. Il pellegrino tedesco Thietmar si sarebbe inerpicato fin qui ancora nel 1217.
Nel 1932 i francescani riuscirono ad acquisire la proprietà della cima del Ras Siyagha, e nel 1935 anche il Khirbat al-Mukhayyat. Dato che non si avevano informazioni precise su quali fossero il Nebo e il Pisga, la Custodia di Terra Santa decise di acquisirle entrambe. Questa incredibile transizione di terre beduine in mano a stranieri fu possibile solo grazie a frate Gerolamo Mihaic, un francescano croato che si trovava a Gerico e che si era conquistato le simpatie dell’allora emiro – poi re – Abdallah I, grazie alla sua allegria contagiosa e ai prodotti del suo orto (si narra che una volta gli venne addirittura affidata la sorveglianza dell’harem!). Furono gli archeologi francescani Sylvester Saller e Bellarmino Bagatti, dello Studium Biblicum Franciscanum, a condurre i primi scvi alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Le ricerche sul Nebo vennero poi portate avanti da padre Michele Piccirillo tra il 1976 e il 2008, anno della sua morte.
Nella Bibbia il monte Pisga viene citato in due diversi contesti. Nel primo caso, il re moabita Balak tenta per tre volte di convincere il veggente Balaam a maledire gli israeliti, ma ogni volta ottiene l’effetto opposto. Il secondo tentativo ha appunto il Pisga come scenario:
Allora Balak disse a Balaam: «Che cosa mi hai fatto? Per maledire i miei nemici io ti ho preso, ed ecco, li hai grandemente benedetti». Rispose: «Non devo forse aver cura di dire solo quel o che il Signore mi mette sul a bocca?». Balak gli disse: «Vieni con me in altro luogo da dove tu possa vederlo; ne vedrai solo un’estremità, non lo vedrai tutto intero: di là maledicilo per me». Lo condusse al campo di Sofìm, sul a cima del Pisga; costruì sette altari e offrì un giovenco e un ariete su ogni altare. Al ora Balaam disse a Balak: «Férmati presso il tuo olocausto e io andrò incontro al Signore». Il Signore andò incontro a Balaam, gli mise una parola sul a bocca e gli disse: «Torna da Balak e parla così». Balaam tornò da Balak, che stava presso il suo olocausto insieme con i capi di Moab. Balak gli disse: «Che cosa ha detto il Signore?». Al ora Balaam pronunciò il suo poema e disse: «Sorgi, Balak, e ascolta; porgimi orecchio, figlio di Sippor! Dio non è un uomo perché egli menta, non è un figlio d’uomo perché egli ritratti. Forse egli dice e poi non fa? Parla e non adempie? Ecco, di benedire ho ricevuto il comando: egli ha benedetto, e non mi metterò contro. Egli non scorge colpa in Giacobbe, non ha veduto torto in Israele. Il Signore, suo Dio, è con lui e in lui risuona un’acclamazione per il re. Dio, che lo ha fatto uscire dal ’Egitto, è per lui come le corna del bufalo. Perché non vi è sortilegio contro Giacobbe e non vi è magìa contro Israele: a suo tempo vien detto a Giacobbe e a Israele che cosa opera Dio (Num 23,11-23).
Non sono invece stati identificati gli altri due punti da cui Balak tentò di costringere Balaam a scagliare una maledizione su Israele: «Kiriat-Cusot» (Num 22,39) e la «cima del Peor» (Num 23,28). È però interessante il fatto che il Pisga venga definito «campo dell’esploratore» (la versione CEI non traduce il termine ma scrive «campo di Sofìm»,) che corrisponde alla sua conformazione naturale sporgente a mo’ di balcone. Ma il Pisga svolge un ruolo ben più importante nel secondo contesto in cui lo cita la Bibbia. Mosè infatti non potrà mettere piede nella Terra promessa, potrà solo contemplarla da qui.
In quello stesso giorno il Signore disse a Mosè: «Sali su questo monte degli Abarìm, sul monte Nebo, che è nel a terra di Moab, di fronte a Gerico, e contempla la terra di Canaan, che io do in possesso agli Israeliti. Muori sul monte sul quale stai per salire e riunisciti ai tuoi antenati, come Aronne tuo fratel o è morto sul monte Or ed è stato riunito ai suoi antenati, perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti al e acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin, e non avete manifestato la mia santità in mezzo agli Israeliti. Tu vedrai la terra davanti a te, ma là, nel a terra che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai!» (Dt 32,48-52).
Al momento dell’esecuzione di quest’ordine divino, è il testo stesso a fornire una precisazione relativa al monte Pisga:
Poi Mosè salì dal e steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale e il Negheb, il distretto del a val e di Gerico, città del e palme, fino a Soar. Il Signore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: “Io la darò al a tua discendenza”. Te l’ho fatta vede re con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!». Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel a terra di Moab, secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nel a val e, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba (Dt 34,1-6).
Il Nebo/Pisga, pur non espressamente nominato, tornerà in scena nel Secondo libro dei Maccabei. In una lettera inviata agli ebrei che vivevano in Egitto, gli abitanti di Gerusalemme ricordano un testo perduto nel quale era scritto che il profeta Geremia, prima della distruzione del Tempio salomonico per mano dei babilonesi, aveva nascosto sul monte Nebo la sacra tenda, l’Arca dell’Alleanza e l’altare dell’incenso:
Si diceva anche nello scritto che il profeta, avuto un oracolo, ordinò che lo seguissero con la tenda e l’arca. Quando giunse presso il monte, dove Mosè era salito e aveva contemplato l’eredità di Dio, Geremia salì e trovò un vano a forma di caverna e vi introdusse la tenda, l’arca e l’altare del ’incenso e sbarrò l’ingresso. Alcuni di quel i che lo seguivano tornarono poi per segnare la strada, ma non riuscirono a trovarla. Geremia, quando venne a saperlo, li rimproverò dicendo: «Il luogo deve restare ignoto, finché Dio non avrà riunito la totalità del popolo e si sarà mostrato propizio. Al ora il Signore mostrerà queste cose e si rivelerà la gloria del Signore e la nube, come appariva sopra Mosè, come già avvenne quando Salomone chiese che il luogo fosse solennemente santificato» (2Mac 2,4-8).
La vista panoramica dal monte Pisga disvela la Terra Promessa, come fece con Mosè: dal Mar Morto attraverso l’ Herodion, Betlemme e Gerusalemme (distante 46 km in linea d’aria) fino alla cima appuntita dell’ Alexandreion e Gerico. Di notte si vedono baluginare le luci delle città. Passato l’ingresso del sito, una lapide commemorativa alta sei metri ricorda la visita di Giovanni Paolo II in Terra Santa nel 2000. Sul lato frontale, in latino, si legge: «Un solo Dio e Padre di tutti, al di sopra di tutti» (Ef 4,6). Sul lato nord, a destra, sono raffigurati i profeti dell’Antico Testamento, che vedevano il futuro ma in maniera ancora velata (cfr. 1Pt 1,10-12).
Sulla parte posteriore è scritto in arabo: «Dio è amore», che è «l’invito del Cielo e il messaggio dei profeti». Infine sul lato sud, a sinistra, si legge di nuovo (stavolta in greco): «Dio è amore» (1Gv 4,8). Al di sopra è posto lo stemma della Custodia di Terra Santa.
Nel piccolo museo sono esposti, oltre a modellini e tavole illustrative, alcuni reperti minori – soprattutto ceramiche – e due pietre miliari della strada romana che andava da Heshbon a Livias (oggi Tell ar-Rame nei pressi del luogo del Battesimo sul Giordano) aggirando il Nebo verso nord.
La colonna centrale, in un gruppo di tre è in pregiato marmo bianco e nero proveniente da una cava imperiale, anzi era probabilmente dono dell’imperatore (Costantino?) alla comunità cristiana locale.
Nella basilica bizantina sono stati rinvenuti mosaici in tre strati, a volte addirittura quattro, che coprono complessivamente una superficie di 700 mq. Sono stati messi in sicurezza e staccati; ora quasi tutti si trovano esposti all’interno della basilica nuova.
La nuova basilica
A partire dal 1963 si è cominciato a ristrutturare la basilica, all’inizio a semplice scopo di copertura per i resti del memoriale dedicato a Mosè, e poi (dal 2008) in modo che potesse servire contemporaneamente da santuario, museo e riparo per le antichità.
I lavori, completati nel 2016, erano stati rallentati prima dall’improvvisa scomparsa dell’archeologo e capocantiere Michele Piccirillo, poi dallo sviluppo di nuove tecniche conservative, o meglio, dalla riscoperta dell’antica tecnica musiva. È infatti stato dimostrato che i metodi di fissaggio delle tessere con il cemento utilizzati negli anni ’60 e ’70 alla lunga danneggiano l’opera, mentre il metodo della malta di calce porta via più tempo, ma dura più a lungo.
La nuova chiesa è più ampia della sua antecedente bizantina, dato che ingloba anche vani aggiuntivi e cappelle laterali. Corrisponde tuttavia all’originale l’insolito presbiterio a tre absidi, in forma di trifoglio. Nello strato lapideo inferiore (quello originale), si nota che gli elementi architettonici avevano riutilizzato materiali di un precedente edificio, ad esempio una base di colonna che ora è finita capovolta. Purtroppo non sappiamo quasi nulla di questa struttura originaria, tanto più che i reperti di quell’epoca sono rarissimi. Potrebbe trattarsi di una costruzione pagana, ma anche di un memoriale ebraico o samaritano in onore di Mosè. Di fatto, sono stati rinvenuti i resti di un’iscrizione samaritana, ma quasi incomprensibile, oggi conservati a Gerusalemme al museo dello Studium Biblicum Franciscanum.
Le vetrate dell’abside, che risalgono alla prima versione “di fortuna” della chiesa, mostrano a sinistra Mosè e Aronne con l’acqua che scaturisce dalla roccia (Es 17,1-6); al centro, Mosè che intercede per il popolo, sorretto da Aronne e Cur (Es 17,8-13); a destra la morte di Mosè qui, sul monte Nebo.
Nella navata centrale, durante i lavori è stata effettuata per caso un’importante scoperta: una tomba mai utilizzata, nel senso che è troppo poco profonda e non mostra alcuna traccia di inumazioni. Per questa tomba era stato riutilizzato alabastro di un monumento più antico (erodiano?). Si è quasi sicuri di aver messo le mani sul “sepolcro di Mosè” descritto dalla pellegrina Egeria:
In questa chiesa, là dove sorge l’ambone, ho notato una zona un po’ sopraelevata, delle dimensioni più o meno di una tomba. Ho chiesto a quei santi uomini di che cosa si trattasse, e mi hanno risposto: «Qui il santo Mosè è stato deposto dagli angeli. Dato che, come è scritto [Dt 34,6], nessun uomo sa dove si trovi la sua tomba, allora sono stati sicuramente gli angeli».
Per il riordino dei mosaici è stato seguito questo criterio: dei diversi strati musivi, la parte meglio conservata o più riccamente decorata è stata ricollocata nella sede originaria. Gli altri mosaici sono stati appesi alle pareti nel punto più vicino possibile. Cosicché quasi tutte le opere, appartenenti alle diverse fasi della storia dell’edificio, hanno trovato posto nella nuova basilica.
La scultura moderna
La scultura moderna che si vede sullo spiazzo di fronte alla chiesa è stata realizzata nel 1983-84 dal fiorentino Gian Paolo Fantoni: il serpente di rame innalzato da Mosè nel deserto è avvinghiato a un’asta sagomata come una croce. L’artista pone in collegamento la storia veterotestamentaria con la cristologia, come fece l’evangelista Giovanni. In realtà, non è chiaro dove sia stato innalzato il serpente di rame durante l’Esodo e neppure la vicinanza al monte Or aiuta a risolvere l’enigma.
Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita (Num 21,4-9). E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,14-15).
La città di Nebo si identifica oggi con la cima del Khirbat al-Mukhayyat, in arabo “rovine dell’attendamento”, a due kilometri da Ras Siyagha. I sepolcri presenti ai margini della collina risalgono indietro nel tempo fino al II millennio a.C. Nella Bibbia Nebo, abitata da allevatori di bestiame (Num 32,1-4.37-38), è elencata tra le città destinate alla tribù di Ruben. Sono stati identificati edifici dell’età erodiana. All’epoca del vescovo Eusebio (inizi del IV secolo), Nebo era un villaggio abbandonato, che sarebbe rinato solo nel V secolo. Sembra che nel VI vi regnasse addirittura il benessere.
Negli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale, qui furono ritrovate quattro chiese.
Una è quella dei Santi Lot e Procopio, per la cui tutela è stato costruito un edificio in pietra che copre le rovine. Del colto «lettore» (professore) Procopio di Scitopoli (Bet Shean) sappiamo – da sant’Eusebio – che fu decapitato a Cesarea nel 303: la prima vittima delle persecuzioni di Diocleziano. Il mosaico della chiesetta (16 x 8,5 metri circa), uno dei più vivaci e meglio conservati di tutta la Terra Santa, era stato ritrovato già nel 1913 duranti i lavori di costruzione di una casa. In venti medaglioni disegnati dai viticci è raccontata in dettaglio la vita della zona: caccia, pastorizia, viticoltura. La parte più interna (a ovest) del mosaico mostra invece alberi da frutto, lepri, cervi, ma anche l’altare degli olocausti di Gerusalemme con due tori e il versetto del Salmo 51,21: «Allora immoleranno tori sopra il tuo altare», come nella cappella della Madre di Dio sul monte Nebo.
Nel 1935 in cima alla collina è stata scoperta la piccola chiesa di San Giorgio, a tre navate (12 x 12,5 metri). Costruita durante l’episcopato di Elia nell’anno 536, era inserita all’interno di un complesso monastico e aveva una cisterna collocata sotto il presbiterio. Ben conservato il pavimento musivo.
A est, alle pendici del Wadi Afrit (dall’ingresso del sito archeologico, guardare a sinistra in basso), è stata riportata alla luce la cosiddetta “chiesa di Amos e Kasiseos”. Non si sa a chi fosse dedicata; il nome è quello dei fondatori, indicati sui seggi del coro che erano stati riutilizzati in una
casa privata araba. Dev’essere questa la chiesa più antica della zona. Sul suo lato nord sorgeva una dependance con due pavimenti a mosaico sovrapposti. I temi sono, di nuovo, caccia, pastorizia e vita contadina. Oggi non è più visibile la figura femminile che simboleggiava la Terra, però si legge ancora bene l’iscrizione sul timpano, tra pavoni, galli e quattro massicce colonne: «Per la salvezza e su donazione dei tuoi servi Sergio, Stefano e Procopio, Porfiria, Roma e Maria, e il monaco Giuliano». Il mosaico è opera degli stessi artisti che hanno lavorato nella chiesa dei Santi Lot e Procopio. Il mosaico sottostante, scoperto nel 1985, apparteneva a una cappella più piccola, fondata quasi un secolo prima (seconda metà del V secolo) dal «diacono Kaiumos», al tempo del «vescovo Fido». Già questo mosaico, uno dei più antichi, dimostra la perizia dei suoi esecutori.
Alle pendici dell’altura sul lato opposto del Wadi Afrit è stato liberato dal terriccio un piccolo monastero composto da una cappella (9 x 12 metri) e tre sale adiacenti. La popolazione araba locale era a conoscenza già in passato dei resti, che chiamava semplicemente al-Kanisa, “la chiesa”. Del
pavimento musivo della cappella si è salvato solo un pezzo di fronte all’altare: raffigura un vaso da cui esce una vite con due tralci di diverso colore.
Il monastero della Madre di Dio
Da distinguere da questo è il monastero della Madre di Dio che sorge su uno sperone meridionale del monte Nebo, a est della sorgente detta Ain al-Kanisa (“fonte della chiesa”) dai beduini. Anche quest’altro sito era stato identificato da Saller e Bagatti fin dagli anni ’30 del Novecento, anche se
poi gli scavi sono stati effettuati solo negli anni ’90. Sia il cortile – che copriva una cisterna – sia la chiesa erano abbelliti da mosaici: presso l’altare, decorazioni a forma di conchiglia; nella navata, di nuovo medaglioni circondati da viticci, con fiori, frutti e animali, poi danneggiati dagli iconoclasti. Il reperto più importante però sono le iscrizioni in cima e al fondo del tappeto musivo istoriato, che lasciano distinguere due fasi storiche.
Nei primi secoli cristiani vissero qui numerosi monaci, rivivendo interiormente il paradosso per cui Mosè poté vedere la Terra promessa solo da lontano, senza accedervi. Questa presenza cristiana si mantenne notevole per tutto il tempo in cui l’area rimase sotto il dominio bizantino, conservandosi anzi fino all’epoca in cui la sede politica del califfato di Damasco venne trasferita a Baghdad.